Dio C’é

Palazzo Sessa
Opere della Collezione Agovino
Testo di Francesca Blandino
04.10.2014

Collezionare. Ricreare un’immagine del mondo.

Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gl’interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia?

(Borges Jorge Luis, El Aleph, Losanda, Buenos Aires 1952; trad. it. L’Aleph, Feltrinelli Editore, Milano 1992)

In una collezione non ci sono oggetti più importanti di altri; ognuno di essi assume lo stesso valore perché ciò che conta non è la bellezza o la bruttezza ma l’unicità. Unico è infatti un oggetto agli occhi di chi lo colleziona, pur non essendo concretamente possibile. Volgere lo sguardo verso il rapporto che il collezionista ha con le sue raccolte vuol dire addentrarsi nel profondo caos dei suoi ricordi. Ogni passione è legata indissolubilmente ai luoghi più reconditi della memoria. In una collezione il valore di ogni oggetto è dato da collegamenti personali incomprensibili, irrazionali, onirici e affettivi, qualunque sia l’oggetto collezionato. Come pensieri danzanti di una costellazione, gli oggetti raccolti confluiscono nell’universo intimo del collezionista che diviene l’essenza-custode del loro destino. Gilles Deleuze asseriva che l’opera d’arte è l’unico strumento in grado di resistere alla morte, in quanto dotata dell’atto di creazione che è l’atto primo di resistenza. Possedere opere d’arte è indiscutibilmente una forma di potere sul tempo e sulla realtà: è un evento che determina nuove possibilità di senso del mondo e del sé. L’opera d’arte ha perduto da tempo ormai l’aura che le era propria in origine con l’avvento della tecnica ma è divenuta strumento rivelatore di verità, generatrice di nuove percezioni visive in grado di trasformare i flussi di coscienza del singolo e delle masse. L’arte scopre il mondo, illuminandolo, e contemporaneamente ne custodisce la verità più profonda, che si svela solo ai sottoposti dell’immaginazione. Rivela verità non eterne ma storiche, verità non assolute ma che si aprono di volta in volta. Se esperita la pratica dell’arte permette di spezzare il vincolo dell’usuale e dell’ovvio. Il collezionista di opere d’arte è spinto dal desiderio di staccarsi dall’abituale e di immedesimarsi nell’opera stessa per modificare il proprio rapporto con il mondo. Secondo Goethe l’errare può significare commettere errori ma allo stesso tempo vagare, seguire quell’incessante movimento che è presupposto di nuove scoperte. “Erra l’uomo finché cerca” recita il Faust, rivolgendosi a un individuo alla perenne ricerca del senso delle cose. Il collezionista, come un rabdomante, cerca opere di cui si appropria per vivere e comprendere l’eterno presente di cui sono investite, anche solo per pochi istanti. La Collezione Agovino è l’al di là dello specchio di Fabio Agovino, collezionista determinato ad assecondare la propria necessità interiore, che si traduce in un’irrefrenabile esigenza di esprimere l’elemento oggettivo del proprio mondo. A fungere da veicolo di comunicazione tra il reale e l’inconscio, è l’arte, il cui compito è di trasmettere la rivelazione che proviene dall’interiorità spirituale. Fabio osserva il mondo con gli occhi di chi è cosciente che il senso delle cose si attinge dall’interno. La percezione visiva della realtà non è un processo meccanicistico, è una somma di sensazioni e visioni che colgono il mondo esterno nell’unità di come appare dall’interiorità, in una totale assenza di oggettività. La sua raccolta di opere è per Fabio la manifestazione concreta del suo desiderio di fare dell’arte la chiave interpretativa dell’universo. L’origine del collezionare in fondo nasce dal bisogno di comprendere intellettualmente il mondo. Le prime collezioni si ritrovano sotto le sembianze delle wunderkammer o “camere delle meraviglie”, stanze delle dimore nobiliari di fine XVI secolo, nate come ambienti per raccogliere oggetti bizzarri e rari, la cui finalità era destare stupore. La wunderkammer era una sorta di museo privato del nobile o del sovrano che, attraverso la sua collezione di oggetti preziosi e inconsueti, sfoggiava il suo potere. Ricreare un microcosmo dell’immagine del mondo era l’intento principale di nobili e studiosi dell’epoca; gli oggetti raccolti difatti afferivano alla storia naturale, alla botanica, alla zoologia, all’alchimia, e successivamente anche all’arte. Il collezionismo tenta di soddisfare il bisogno di conoscenza a partire dal caos interiore. La figura del collezionista si divide nella costante tensione dialettica tra ordine (realtà esterna) e disordine (interiorità). La ricerca di un possibile equilibrio tra i due poli produce una continua rigenerazione del valore degli oggetti raccolti, che assumono ad ogni aggiunta, ad ogni spostamento, ad ogni enumerazione, un significato differente. L’istinto più profondo di un collezionista, il desiderio di acquisire nuovi pezzi, è collegato alla volontà di rigenerare la propria collezione, con cui si avvicina, pezzo dopo pezzo, alla sua verità nascosta. La Collezione Agovino non si sottrae dallo stimolare l’intellezione del suo artefice, che stabilisce un contatto diretto con l’opera nel suo divenire altro da forma, nel suo farsi portatrice di punti di vista differenti sulle cose. Fabio riversa il suo caos interiore nell’arte, che abbattendo il muro tra passato e futuro, gli apre lo sguardo a molteplici visioni di un presente statico e indecifrabile solo in apparenza. La Collezione Agovino ha sede nello storico Palazzo Sessa a Cappella Vecchia, sito nel quartiere San Ferdinando. Reso attualmente quasi invisibile dalle ramificazioni edili della città, Palazzo Sessa resta un edificio unico, ricco di suggestioni.

Dimora di illustri personaggi, vanta origini antichissime. Il Celano narra che il palazzo sorse sopra un’abbazia, quella di Santa Maria a Cappella Vecchia, nello stesso luogo in cui, in periodo ellenico, sembra fosse presente il tempio di Serapide. Il portale reca la data del 1506. In seguito alla soppressione degli ordini religiosi, il palazzo fu acquistato dal marchese Giuseppe Sessa che ne fece la sede dell’ambasciata inglese. Di lì in poi fu un susseguirsi di personaggio illustri. Nel 1787 fu la volta di Wolfgang Goethe, in visita a Napoli per incontrare Lord Hamilton, ambasciatore alla corte di Napoli dal 1864 al 1800, noto per essere un accanito collezionista d’arte. La collezione dimora proprio in uno degli ambienti di Casa Hamilton, prestando fede al principio secondo cui l’arte è elemento imprescindibile di chi ricerca una visione al di là della superficie. Palazzo Sessa ospita attualmente anche la sede della Comunità Ebraica, come attesa una lapide del 1928. Furono i Rothschild a contribuire alla trasformazione di un’ala dell’edificio a sinagoga, già nel 1864. Fervori e spinte culturali si sono stratificati nel tempo in questo splendido complesso, collocato tra lo smaniare del mare e l’incalzante presenza della parte alta della città. La mostra Dio c’è. Opere dalla Collezione Agovino consacra la dinamicità della collezione di Fabio, che tenta di investigare quelle “difficoltà di senso” di cui è pervasa l’esistenza quotidiana. Partiamo dal titolo. Dio c’è  è tratto dall’opera omonima dei Claire Fontaine, collettivo nato a Parigi nel 2004, il cui nome fa riferimento a un nota marca di quaderni francesi, e che fa dell’arte un dispositivo generatore di pensieri sovversivi sui modelli di potere attraverso la pratica del ready-made. Dio c’è non è un’enunciazione evocativa, è la frase che abitava i muri di Napoli e di altre città del Sud Italia per segnalare la presenza di zone di spaccio. I Claire Fontaine la realizzano in neon, conferendole una luminosità dai tratti sacrali. Il rovesciamento dello status quo dei sistemi sociali diviene possibile con spostamenti di senso, decontestualizzazioni e macchinazioni linguistiche. Dio c’è è una forma di ribellione all’immobilismo indotto dal potere che influenza i desideri e modella le vite per adattarle alla strategia del capitale. La mostra è un invito a non smettere di cercare la propria unicità nella moltitudine di merci spettacolarizzate e corpi feticci. La denuncia del potere e della sua capacità di fare del piacere e del sapere strumenti di controllo sui corpi, è velata nell’opera Subjecters (Caos) di Thomas Hirschhorn, la cui pratica artistica è tesa a minare l’idea di mondo perfetto diffusa dalle immagini dei media. Le sue mannequins vestono abiti realizzati con i più svariati materiali, plastica, pellicola di alluminio, nastri adesivi, fotografie, ecc., quasi a voler racchiudere in un’unica entità tutto il caso e la precarietà della realtà. Hirschhorn è ossessionato dalla ricerca di una forma che superi la comprensione significante del primo incontro per rinnovarsi dinnanzi a ogni nuovo sguardo. Il rapporto tra realtà e rappresentazione è indagato da Patrizio Di Massimo, che per Dio c’è ha presentato la performance “Mister”, un cumulo di cuscini adagiato su una parete, da cui spuntano parti di un corpo annegato nei guanciali. L’artista cerca di creare una separazione tra realtà e verità, usando come espedienti l’ironia e lo spostamento dei punti di vista sulle cose, partendo dall’interpretazione dell’identità storica. Giochi allusivi di matrice surrealista animano le sue creazioni che si traducono in video, disegni, installazioni e performance. Come raccontare le cose è il punto di partenza per l’investigazione del concetto di identità, poiché scopo dell’artista è quello di mostrare i diversi modi in cui la costruzione di eventi storici incontra la retorica. Perdersi in un labirinto di suggestioni narrative sul passato è una costante che accomuna i lavori di Tris Vonna-Mitchell. Le sue installazioni, come nel caso di Ulterior Vistas, seguono un moto circolare di senso, che conduce ogni storia, ogni ricostruzione narrativa, a rinnovarsi ripetutamente. Lo spazio, il caso e il tempo modificano le percezioni visive e stabiliscono ad ogni loro cambiamento i canoni per le continue rielaborazioni dei racconti. E’ allo spettatore che spetta il compito di cogliere le molteplici prospettive di significato, relazionandosi con lo spazio creato di  volta in volta dall’artista. La ricerca di una logica interpretativa degli accadimenti storici si ritrova anche nelle installazioni di Simon Denny, artista interessato ai cambiamenti introdotti dall’irrompere delle tecnologie nel quotidiano. Il linguaggio generato dai media, quali slogan o strategie di marketing, e l’uso diffuso di supporti digitali e meccanici, hanno prodotto una frattura insolubile nel concetto di innovazione, mettendo in crisi i presupposti stessi della storia dell’arte. Quanto è doveroso per le istituzioni conservare opere d’arte realizzate con materiali nati per avere un ciclo di vita breve? Nella realtà contemporanea domina l’effimero; cosa fa i conti con l’obsolescenza che diviene sempre più forte grazie al potere del mercato. Hic et nunc per oggetti e corpi. Sorge spontanea una domanda allora: come salvaguardare la preziosità dal morbo della precarietà? Seth Price suggerisce di mettere sottovuoto ciò a cui si tiene di più, per immortalarlo e renderlo icona, come fa con il suo bomber in Vintage Bomber. Il viaggio alla ricerca di un senso delle cose continua nel percorso di Dio c’è, sapientemente orchestrato in tutti gli ambienti di Casa Agovino, nessuno escluso, neanche il più intimo. Ogni opera è specchio della successiva: il significato si rivela nel rapporto che s’instaura. Ed ecco che la leggerezza naïve di May Hands incontra l’irruenza materica di Nico Vascellari; l’esistenzialismo minimalista di Darren Almond dialoga con la quotidianità reinventata di Cheyney Thompson; le produzioni multiformi e colorate di Erica Mahinay conversano con la carica emotiva e ironica di Grear Patterson, che si appropria del linguaggio del sistema mediatico per smontarlo e rivelarne i meccanismi reconditi. E così’ via. Il montaggio, la selezione e la relativa combinazione che ne deriva, costruiscono la narrazione della mostra. La selezione e la combinazione salvano l’opera dall’accumulo indiscriminato, in quanto ogni elemento trova una relazione con lo spazio che lo contiene e stabilisce una connessione affettiva con gli altri elementi. Fabio compie un’operazione di assemblaggio e ri-assemblaggio, inscrivendo le opere in una classificazione sempre diversa e strettamente legata alla sua memoria, per non perdere il bagaglio iconografico e culturale raccolto. Dio c’è è una mostra sul potenziale, sulla possibilità di creare molteplici relazioni e costruire infiniti significati sulla realtà. Il timore di non riuscire a trovare una rappresentazione al proprio ordine o di non trovare affatto un ordine svanisce al cospetto di una narrazione aperta che consente di ritrovare l’invenzione oltre l’enumerazione, l’originalità oltre la citazione, la libertà al di là della memoria, la spiritualità nel mondo e un significato alle cose.

Francesca Blandino

Photos by Maurizio Esposito